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Roma, Museo Ebraico: “Donne. Storie di donne che hanno influenzato il mondo”

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«Tutti i guai dell’uomo derivano dal fatto che non sa starsene tranquillo, da solo, in una stanza.»Elsa Morante

C’è un pudore che attraversa le sale del Museo Ebraico di Roma. Un pudore che non cerca di coprire, ma che espone con compostezza ciò che è stato strappato, perduto, sopravvissuto. Nella mostra Donne. Storie di donne che hanno influenzato il mondo, in corso fino al 1 settembre 2025, non si raccontano trionfi. Si sfiorano vite. Si evocano tracce. Si raccolgono frammenti.

Il tempo della mostra non è quello della cronologia, ma quello della resistenza interiore. Ogni biografia è una sopravvivenza che si è fatta gesto, parola, segno. Nessuna protagonista vuole essere modello: ognuna testimonia. La scelta curatoriale è radicale nel suo rigore. Le immagini non spiegano, i testi non gridano, le pareti non decorano. Si entra nel silenzio delle storie. Si attraversano come si attraversa un campo già calpestato: con cautela.

Rita Levi Montalcini, Elsa Morante, Franca Valeri, Amelia Rosselli, Roberta di Camerino, Ruzena Bajcszy: non sono nomi esposti per essere ammirati, ma nomi da pronunciare con lentezza. Le loro vite sono state luoghi di passaggio tra la paura e la lucidità. Hanno abitato la marginalità non come sconfitta, ma come condizione etica. Hanno lavorato senza attendersi applausi. Hanno scritto, creato, inventato, studiato: non per conquistare qualcosa, ma per non smettere di esistere.

Nel cuore del Ghetto, tra i corridoi sobri del museo, l’ordinamento visivo non propone narrazioni lineari. Ogni tappa interrompe il cammino. Ogni documento rallenta. Ogni fotografia obbliga a guardare. Le voci delle donne sono presenti, ma non sovrapposte. Nessuna prende il sopravvento. Nessuna cerca di rappresentare le altre. È una coralità muta, fatta di dignità.

Il tono complessivo dell’allestimento è asciutto, quasi spoglio. Ma proprio in quella sottrazione sta il gesto politico. Nulla viene concesso al compiacimento. La memoria è materia opaca: non si presta allo sguardo distratto. Perciò la mostra non racconta la storia, ma la lascia affiorare. Chi osserva è chiamato a costruire il proprio percorso di comprensione. A scegliere da dove cominciare, dove fermarsi, cosa portare con sé.

Al centro, come una presenza vigile, la voce di Liliana Segre si leva attraverso un videomessaggio. Non c’è enfasi. C’è la sobrietà di chi ha capito che il vero rischio non è il passato, ma l’oblio. Le sue parole non consolano, non indignano, non commuovono. Esistono. E nella loro esistenza spingono a restare vigili.

L’esposizione nasce da una collaborazione con l’Ambasciata della Repubblica Slovacca in Italia, l’Istituto Slovacco e il Museo della Cultura Ebraica di Bratislava. Curata da Michal Vanek, Olga Melasecchi, Lia Toaff e Michelle Zarfati, è pensata come un atlante minimo della condizione femminile del Novecento. Ma non cerca di definire, né di riassumere. Si limita a suggerire.

Tra gli elementi più incisivi, vi è la presenza della professoressa Bajcszy, novantaduenne pioniera dell’informatica, che appare in un video a raccontare senza retorica la sua vita. Il volto, più che le parole, dice tutto. Dice la fatica, la lucidità, la tenacia. In quella testimonianza si condensa l’anima della mostra: restare quando tutto sembra dissolversi.

Ogni sezione evita la spettacolarizzazione. Non ci sono installazioni immersive, non ci sono effetti sonori, non ci sono narrazioni semplificate. C’è un movimento lento della coscienza. Un appello discreto a non dimenticare che la storia è fatta anche di esitazioni, di sussurri, di ferite non chiuse. In quel senso, la mostra è un’opera aperta. Chi la percorre ne diventa parte.

La funzione pubblica del Museo Ebraico, in questa occasione, si realizza in pieno: non solo luogo di custodia, ma spazio di interrogazione. Non solo cultura, ma responsabilità. Il percorso suggerisce che ogni conquista è fragile, che ogni libertà ha un prezzo, e che la memoria non serve per ricordare, ma per agire.

Donne. Storie di donne che hanno influenzato il mondo non è una mostra da visitare, ma da attraversare. Non è un elenco, ma un invito. Non è un tributo, ma una domanda. Ed è forse in questo che si rivela la sua forza più grande: nella capacità di lasciare in chi guarda la sensazione precisa di dover tornare a pensare. A sé, agli altri, alla Storia. Con l’inquietudine sobria che si addice a ciò che è davvero importante.

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Scritto da
Davide Oliviero -

Laureato in discipline umanistiche presso l'Università di Bologna sotto la guida del Professor Umberto Eco, ha avviato la sua carriera nell'archeologia classica, concentrandosi sulla drammaturgia greco-romana. Il suo interesse per il design lo ha spinto a seguire un corso triennale in design d’interni, continuando nel contempo a lavorare nel campo archeologico. Col tempo, ha sviluppato una passione per la scrittura e la musica classica, che lo ha portato a recensire opere liriche per 14 anni in teatri prestigiosi come il Teatro alla Scala, il Covent Garden e l’Opéra di Parigi. Ha inoltre curato contenuti culturali e musicali per diverse pubblicazioni. Negli ultimi anni ha scritto per la rubrica In Arte, trattando di mostre, teatro e arti letterarie a Roma, collaborando con istituzioni come le Scuderie del Quirinale e i Musei Vaticani. Ha recensito spettacoli teatrali, con particolare attenzione al musical e alla prosa, ed è accreditato presso i principali teatri italiani. La sua competenza lo ha reso un ospite frequente in programmi televisivi culturali, oltre a ricoprire il ruolo di giudice permanente per il Premio Letterario Andrea Camilleri. Attraverso i social media, promuove l’arte e la bellezza, fondendo abilmente leggerezza e profondità, rendendo questi temi accessibili a un vasto pubblico.

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