“Ab Ovo – Ippocampo” di Camilla Ancilotto in mostra a Palazzo Valentini per la Biennale Internazionale d’Arte della Riviera Romana. Una scultura sopravvissuta all’esplosione di Beirut e tornata a parlare con la luce.
Ci sono opere che sopravvivono al contesto per cui erano state concepite. Non perché ne sfuggano, ma perché quel contesto, per eventi imprevedibili, si dissolve o muta fino a rendere l’opera una testimone. È il caso di Ab Ovo – Ippocampo di Camilla Ancilotto, oggi esposta a Palazzo Valentini nell’ambito della Biennale Internazionale d’Arte della Riviera Romana, dove assume un ruolo più ampio di quello meramente espositivo: diventa, infatti, un punto di condensazione tra forme estetiche, vicende geopolitiche e tensioni memoriali.
L’opera, scolpita in acciaio lucidato e foglia d’oro, nasce nel 2019 come parte di un ciclo dedicato alla scomposizione modulare della forma. Il titolo Ab Ovo – dal latino “dall’uovo” – rinvia a un principio generativo, a un’origine archetipica, ma anche all’idea di nascita come evento ciclico, rinnovabile. L’Ippocampo, elemento specifico di questa articolazione, si rifà a un’immagine zoomorfica che attraversa iconografie mitologiche e simboliche, e che Ancilotto reinterpreta attraverso una sintassi geometrica ispirata al Tangram. La sua levigatezza specchiante, l’alternanza tra metallo lucido e doratura, suggeriscono uno stato intermedio: non oggetto statico, ma superficie in attesa di essere attivata dallo sguardo.
Tuttavia, ciò che trasforma profondamente l’opera – o meglio, ciò che la carica di una forza ulteriore – è il suo percorso biografico. Nel settembre 2019 l’opera viene spedita alla Belvedere Art Space di Beirut per essere esposta. Pochi mesi dopo, la devastante esplosione che colpisce il porto della capitale libanese travolge anche la galleria. Per un lungo periodo si perdono le tracce della scultura. Inizia così, per l’artista, una ricerca estenuante e frammentaria: un lavoro di contatti, domande inevase, tentativi diplomatici.
Nel maggio 2024 si apprende che la galleria ha nel frattempo spostato la sua sede a Dubai. L’opera viene infine ritrovata grazie all’intervento del Consolato italiano e rimpatriata nei primi mesi del 2025. Questa traiettoria trasforma Ab Ovo – Ippocampo in un oggetto di confine: da opera d’arte a testimone materiale di un evento traumatico, da oggetto disperso a simbolo di recupero e permanenza.
Non è un caso che l’opera sia stata insignita del Primo Premio alla VI Biennale di Genova nella sezione Scultura. Ma l’aspetto più interessante non è tanto il riconoscimento quanto l’accadimento estetico che si produce quando l’opera viene ricollocata all’interno di un nuovo spazio: in questo caso, una delle sale decorate di Palazzo Valentini. Qui la scultura si trova a interagire con gli stucchi, gli affreschi e l’ambiente storicizzato, producendo un effetto non di contrasto ma di riverberazione. La sua superficie riflettente accoglie e distorce gli elementi che la circondano, innescando una dinamica di raddoppiamento visivo che spinge l’osservatore a collocarsi non di fronte all’opera, ma all’interno della sua logica.
Ancilotto lavora da anni su una poetica della modularità e della reversibilità. La forma non è mai definitiva, ma si offre come processo, possibilità, costruzione aperta. La scelta dell’acciaio – un materiale industriale, lucido, a suo modo inospitale – viene riequilibrata dalla presenza dell’oro, che introduce una dimensione simbolica più antica, quasi sacrale. L’effetto complessivo è quello di una scultura che non pretende di imporsi, ma che esige uno sguardo attivo, capace di coglierne il carattere dinamico.
A rendere ancora più significativo questo ritorno è il tema scelto dalla Biennale 2025: Arte e Giubileo: un cammino di speranza verso la luce. Anche qui, il riferimento non è semplicemente spirituale, ma ontologico: la luce come elemento rivelatore, come passaggio dall’opacità alla trasparenza, dall’oblio alla visibilità. L’Ippocampo di Ancilotto, nel suo stesso materializzarsi nello spazio espositivo dopo anni di assenza, incarna questa tensione.
Il dialogo con la storia non è mai didascalico. L’opera non commenta gli eventi che ha attraversato, non rappresenta il trauma. Ma la sua semplice presenza, oggi, è già una forma di risposta. La sua lucidità – letterale e metaforica – suggerisce che la superficie riflettente non è uno schermo vuoto, ma un’interfaccia. Tra chi guarda e ciò che è stato.
Nell’economia visiva di una mostra, ci sono opere che si lasciano attraversare. Altre che resistono. Altre ancora che restituiscono. Ab Ovo – Ippocampo appartiene a quest’ultima categoria. Non per la sua forma, ma per la sua storia. Ed è in questo nodo tra estetica e destino che l’arte, talvolta, si lascia riconoscere non come espressione, ma come ritorno.