Nel cuore della stagione 2024/25, il Teatro dell’Opera di Roma suggella con rigore e passione il 125° anniversario della prima assoluta di Tosca con un allestimento che esalta la forza drammatica e musicale del capolavoro pucciniano.
La serata al Teatro dell’Opera di Roma, per l’ultima recita del celebre allestimento di Tosca, è apparsa come un atto di fede nella grande tradizione lirica italiana: un rito laico che affonda le sue radici nella storia stessa del teatro Costanzi, dove l’opera andò in scena per la prima volta il 14 gennaio 1900 alla presenza di Puccini, della Regina Margherita e del fior fiore della Roma ufficiale. La produzione, già nota al pubblico per la sua fedeltà filologica e la sontuosa ricostruzione scenica firmata da Carlo Savi (scene) e Anna Biagiotti (costumi) sui bozzetti originari di Adolf Hohenstein, si conferma ancora una volta non solo come esercizio di memoria storica, ma come concreto strumento di drammatizzazione e immersione.
Alla bacchetta, il maestro James Conlon dirige con un gesto essenziale ma carico di significato, senza cedere mai al manierismo o alla retorica sonora. La sua concertazione si rivela un modello di trasparenza e precisione: la tensione agogica tra lirismo e dramma è sempre controllata, e la tavolozza timbrica dell’orchestra restituisce tutte le infinite sfumature del linguaggio pucciniano, con un’attenzione particolarissima al rapporto tra cantabilità e percussività ritmica. Le sezioni degli archi, morbide e compatte, si stemperano in un continuo respiro narrativo, mentre gli ottoni (in particolare nei momenti liturgici) conservano un colore dorato e rotondo, mai invasivo ma profondamente evocativo.
Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, guidato con sicurezza e raffinatezza da Ciro Visco, raggiunge punte di assoluta grandezza nel celebre Te Deum che chiude il primo atto: un affresco sonoro sontuoso, costruito su un sapiente equilibrio fra sacralità teatrale e intensità drammatica, quasi a restituire l’ambiguità profonda del potere clericale che pervade l’intera vicenda.
Nel ruolo della protagonista, Anna Pirozzi offre una Tosca di grande nobiltà vocale e finezza interpretativa. La linea di canto si articola con estrema naturalezza, sostenuta da un’emissione salda e da un controllo dinamico esemplare: il timbro, pastoso e luminoso, resta omogeneo su tutta la gamma, mentre la proiezione si impone senza sforzo su orchestra e coro, anche nei passaggi più concitati. La sua Vissi d’arte, accolta da un silenzio quasi religioso in sala, è fraseggiata con un’intelligenza musicale che privilegia la dolcezza al virtuosismo, la verità emotiva alla retorica. Sul piano attoriale, Pirozzi predilige una lettura misurata, lontana da certi eccessi da diva ottocentesca: il suo personaggio è fragile, umano, profondamente innamorato e consapevole della propria tragedia, il che ne rafforza l’impatto drammaturgico.
Accanto a lei, Luciano Ganci è un Mario Cavaradossi di intensa e giovane vitalità. La voce, naturalmente lirica, si espande con sicurezza e calore, modellando con gusto tutte le grandi pagine del ruolo: Recondita armonia si distingue per morbidezza d’attacco e legato sostenuto, mentre l’E lucevan le stelle nel terzo atto risuona come un ultimo canto del cuore, eseguito con squisita sensibilità e con un controllo del fiato da manuale. Il fraseggio è curato e mai compiaciuto, e l’interpretazione attoriale – giocata su gesti sobri e sguardi espressivi – comunica una genuina simpatia, una sorta di naturalezza borghese che ben si addice al pittore rivoluzionario.
Il baritono Ariunbaatar Ganbaatar, nei panni del Barone Scarpia, incarna con carisma e precisione vocale una delle figure più temibili del teatro pucciniano. La voce, scura e granitica, si impone sin dalle prime battute con una chiarezza d’articolazione che rende ogni parola comprensibile e incisiva. La gamma centrale è solida e pastosa, mentre gli acuti emergono con forza senza mai sconfinare nella forzatura. Ganbaatar dosa con maestria il fraseggio e i colori della voce, alternando suoni taglienti e vellutati a seconda del registro psicologico: crudele e arrogante, ma al contempo affascinante e sottile, costruisce un personaggio a tutto tondo. In scena è imponente senza essere ingombrante, e il suo Scarpia – elegante nei modi e luciferino nell’intento – incarna quella malvagità che sa celarsi dietro la cortina dell’autorità e del decoro.
Domenico Colaianni, veterano del ruolo del Sagrestano, restituisce con misura e ironia una figura profondamente romana, senza scadere nella caricatura: il suo timbro baritonale caldo e comunicativo gli consente di dare corpo a un personaggio secondario ma scenicamente determinante nel dare ritmo all’azione. Il suo dialogo con Cavaradossi è di una vivacità teatrale e musicale che mostra il valore della routine interpretativa quando questa si trasforma in mestiere.
Tutti ben allineati, infine, gli interpreti delle parti secondarie, tra cui meritano una menzione Marco Severin (Sciarrone) per puntualità e sicurezza, Matteo Mezzaro (Spoletta), agile e sinistro nei panni della spia, e il giovanissimo Francesco Cicciarello (Pastorello), la cui voce bianca si è distinta per purezza e intonazione, portando una nota di autentica innocenza in apertura del terzo atto.
La regia di Alessandro Talevi, nel rispetto della ricostruzione storica, si segnala per l’intelligente uso dello spazio e una sapiente gestione dei movimenti scenici, evitando ogni rigidità museale. La recitazione è naturalistica ma precisa, e l’equilibrio tra rispetto della tradizione e necessaria vitalità teatrale trova una sintesi felice che ha conquistato il pubblico presente.

Applausi convinti e prolungati al termine della recita, con vere e proprie ovazioni per i tre protagonisti principali e per il maestro Conlon. Una Tosca che, pur nel solco della tradizione, continua a parlare con voce viva, e a far vibrare quella corda segreta che da oltre un secolo tiene uniti il pubblico, la musica e l’emozione più profonda del teatro d’opera.
Photocredit: Fabrizio Sansoni
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