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Roma, Teatro Argentina: “Lazarus”. La nostra recensione.

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È una veglia. Un rito per assenza. Una seduta medianica a luci intermittenti, dove il fantasma di Bowie aleggia non per essere omaggiato, ma per interrogare chi resta. Lazarus, nella versione italiana diretta da Valter Malosti, non è (per fortuna) un santino da museo rock, ma un oggetto scenico complesso e poroso. Lontano anni luce dalla patina celebrativa, si muove in uno spazio interstellare e teatrale, lì dove si incontrano spaesamento, desiderio e rovina.

C’è un uomo – Thomas Newton – intrappolato nella sua solitudine. Un alieno caduto sulla terra, e ancor più dentro se stesso. E c’è Manuel Agnelli, che sceglie la via più difficile: non imita, non cita, non replica. Sta. Nel dolore, nell’immobilità. Canta con voce scavata, recita con trattenuta necessità, non concede nulla. È la scelta migliore: la dignità del trattenere. Un’interpretazione che lavora per sottrazione, e proprio per questo riesce a colpire al cuore. Agnelli, smesso il nero da rocker, veste l’argento di chi non è più qui né là. Sospeso, disidratato, in attesa.

Il testo di Walsh – che già nella sua versione originale rifiuta linearità o spiegazioni – si apre a brecce visionarie, moltiplicazioni narrative, distorsioni temporali. Malosti lo affronta come un viaggio tra gli strati dell’inconscio, orchestrando uno spettacolo che non cerca di spiegare ma di vibrare. E ci riesce. Evita il tranello della nostalgia. Rifiuta il linguaggio teatrale standard. Annega nella musica, come ci si immerge in un sogno lucido.

L’allestimento è un organismo visivo vivo, inquieto. Le scene di Nicolas Bovey sono più che ambienti: sono pieghe della mente, riflessi frantumati. Le luci di Cesare Accetta non illuminano ma tagliano lo spazio, come fendenti nella notte. I video firmati da Luca Brinchi e Daniele Spanò diventano membrane psichiche: proiezioni mentali, soglie inquiete. Niente è mai stabile. Tutto vibra.

Attorno ad Agnelli ruota una costellazione di corpi che si muovono, cantano, scompaiono. Casadilego, delicata e precisa, ha la leggerezza di chi non interpreta, ma attraversa. Voce sottile e potente, corpo minuto e deciso, la giovane artista si muove con autenticità, senza strizzare l’occhio a nessuno. Non chiede approvazione. Funziona.

Tra gli interpreti, il lavoro d’ensemble è notevole: Dario Battaglia, Camilla Nigro, Maurizio Camilli (o Mauro Bernardi, a seconda delle repliche), Andrea De Luca, Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino, Isacco Venturini e Carla Vukmirovic si muovono come tasselli di un mosaico sghembo, in una costante oscillazione tra realtà e sogno. Nessuna caratterizzazione, nessun naturalismo: corpi attivi, presenze astratte.

Fondamentale, e centrale, è il lavoro di Michela Lucenti. La sua coreografia è scrittura scenica vera. Non orpello né abbellimento: drammaturgia. Lucenti, da sempre attenta al margine, qui agisce come regista del corpo. Il movimento dei performer è una grammatica dell’anomalia. Gestualità trattenute, improvvise contrazioni, linee spezzate: una danza che non seduce, ma disturba. Eppure, proprio per questo, arriva profonda.

La musica – eseguita dal vivo – è l’anima nuda dello spettacolo. Non “accompagna”, non “sottolinea”: è motore. La band, composta da otto elementi tra cui Laura Agnusdei (sax), Francesco Bucci (tromboni), Davide Fasulo (piano), Giacomo Rossetti (basso), Stefano Pilia e Paolo Spaccamonti (chitarre), è un’entità sonora autonoma. Suona Bowie senza imitare Bowie. Lo reinventa, lo rivela.

Valter Malosti, regista-filologo, in questa operazione diventa regista-alchimista. Tiene insieme i linguaggi – teatro, musica, video, danza – senza mai imporsi. Lascia che siano le interferenze a costruire senso. Sceglie l’opacità, la sospensione. Sceglie di non spiegare. Un rischio, certo. Ma oggi il teatro ha bisogno di rischiare.

Il pubblico, a Roma, ha accolto con attenzione. Con misura. Con rispetto. Qualcuno – come sempre accade – è fuggito prima del tempo, senza attendere l’ultimo respiro della compagnia. Forse attratti da un calice sui tetti dell’Urbe, forse incapaci di sopportare il vuoto che resta. Ma Lazarus non cerca applausi. Cerca eco. E per molti, questa eco ha continuato a risuonare ben oltre il sipario.

In un presente teatrale spesso dominato da adattamenti pigri e format prevedibili, Lazarus rappresenta un’anomalia luminosa. Un’opera-mondo, che parla di morte, ma anche di permanenza. Che parla di perdita, ma non senza desiderio. Che, nel farsi teatro, trova una forma nuova per continuare a vivere. Photocredit Fabio Lovino

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Scritto da
Davide Oliviero -

Laureato in discipline umanistiche presso l'Università di Bologna sotto la guida del Professor Umberto Eco, ha avviato la sua carriera nell'archeologia classica, concentrandosi sulla drammaturgia greco-romana. Il suo interesse per il design lo ha spinto a seguire un corso triennale in design d’interni, continuando nel contempo a lavorare nel campo archeologico. Col tempo, ha sviluppato una passione per la scrittura e la musica classica, che lo ha portato a recensire opere liriche per 14 anni in teatri prestigiosi come il Teatro alla Scala, il Covent Garden e l’Opéra di Parigi. Ha inoltre curato contenuti culturali e musicali per diverse pubblicazioni. Negli ultimi anni ha scritto per la rubrica In Arte, trattando di mostre, teatro e arti letterarie a Roma, collaborando con istituzioni come le Scuderie del Quirinale e i Musei Vaticani. Ha recensito spettacoli teatrali, con particolare attenzione al musical e alla prosa, ed è accreditato presso i principali teatri italiani. La sua competenza lo ha reso un ospite frequente in programmi televisivi culturali, oltre a ricoprire il ruolo di giudice permanente per il Premio Letterario Andrea Camilleri. Attraverso i social media, promuove l’arte e la bellezza, fondendo abilmente leggerezza e profondità, rendendo questi temi accessibili a un vasto pubblico.

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