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Napoli. Contro il saccheggio. Archeologia, giustizia e identità nella mostra del MANN

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Un percorso attraverso i reperti trafugati restituisce voce alla storia violata, e con essa, alla coscienza collettiva di una nazione

In un’epoca in cui la spoliazione del passato assume i tratti di un crimine sistemico e internazionale, la mostra allestita presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli si propone come una necessaria operazione di ricucitura del tessuto identitario lacerato. Non si tratta di una semplice esposizione, ma di un atto civile e politico che nasce da un’alleanza strategica tra il MANN e la Procura della Repubblica, nel solco di un protocollo d’intesa che ha fatto della cooperazione tra cultura e giustizia uno strumento concreto di resistenza. Qui, l’archeologia si fa strumento giudiziario, e la giurisprudenza, a sua volta, si carica del compito di ricostruire ciò che è stato distrutto.

Ogni reperto esposto è la prova materiale di un crimine e, allo stesso tempo, un frammento di tempo restituito alla narrazione collettiva. Perché il furto di un’opera d’arte, lungi dall’essere solo un reato patrimoniale, è la sottrazione di memoria, l’interruzione violenta di un discorso storico sedimentato nella materia. È un attentato alla topografia dell’identità italiana, che si costituisce — più che in altri luoghi del mondo — attraverso la stratificazione e la permanenza di ciò che la terra ha custodito e che l’archeologo, come un giardiniere della profondità, è chiamato a far rifiorire.

L’esposizione si articola in cinque sezioni che compongono una sorta di cartografia della perdita, dalla genesi del collezionismo — pratica antica e ambivalente, già nota agli antiquarii romani e poi degenerata in forma predatoria — fino alla crudele attualità del traffico internazionale. Si tracciano rotte e si ricompongono trame: dai cunicoli abusivi di tombe e necropoli campane si arriva agli scaffali delle grandi gallerie d’oltreoceano. I reperti trafugati, come prigionieri muti, hanno viaggiato in container e casse anonime, depurati di ogni contesto, privati della loro voce originaria.

Vi è, in questa mostra, un chiaro intento pedagogico, che si manifesta con forza nella sezione dedicata ai grandi casi giudiziari. Le operazioni di sequestro non sono qui solo cronaca giudiziaria, ma capitoli di una guerra invisibile combattuta nelle aule di tribunale quanto nei laboratori di restauro. E come spesso accade nei conflitti a lungo raggio, il nemico assume molte forme: tra le più insidiose vi è la falsificazione. Contraffare un’opera significa non solo truffare il mercato, ma costruire un doppio fittizio della storia stessa, generando narrazioni spurie che contaminano l’intero edificio della conoscenza.

Il percorso si chiude con la sezione più lacerante: quella dedicata agli assenti, agli oggetti perduti, alle opere svanite nell’ombra, che non torneranno. È un catalogo dell’assenza, una necropoli dell’arte dispersa, che ci obbliga a prendere coscienza di quanto ogni oggetto, anche il più minuto, costituisca un nodo inestricabile nella rete della civiltà.

Ma accanto al lutto, c’è anche la restituzione. E qui la mostra acquista il suo senso più pieno. Esposti per la prima volta al pubblico, circa seicento oggetti provenienti da sequestri giudiziari compongono un paesaggio archeologico restituito alla fruizione collettiva. Non più reliquie clandestine, ma testimonianze reintegrate in un contesto di senso. La loro provenienza non si limita alla sola Campania: la geografia dei recuperi abbraccia l’intero Mezzogiorno, svelando una mappa sommersa di saccheggi, ma anche di sopravvivenze.

La ceramica, in tutte le sue declinazioni, domina la scena come codice linguistico primario delle culture antiche. Dagli impasti grezzi della prima età del Ferro fino alla raffinatezza attica a figure nere e rosse, dalla policromia apula ai vasi lucani e campani, ogni oggetto è un enunciato visuale, un frammento di discorso artistico e sociale. A questi si affiancano armi e armature in bronzo, oggetti di ornamento e uso quotidiano, splendide terrecotte votive e figurate, elementi architettonici marmorei, monete di età greca, romana e medievale, fino ai preziosi reperti subacquei, che testimoniano il commercio e il naufragio, la vita e la rovina.

L’eterogeneità dei materiali non solo impressiona per quantità e qualità, ma rivela il respiro lungo delle civiltà che hanno popolato la penisola: dalla Daunia all’Enotria, dall’Etruria al mondo ellenistico, dalla Roma imperiale fino alle soglie del Medioevo. In questo ritorno all’ordine, il museo non si limita a esporre: restituisce senso, riconnette i nodi spezzati, restituisce profondità al tempo.

Molti di questi oggetti provengono da contesti funerari violati, da tombe antiche che custodivano il dialogo tra i vivi e i morti, ma che il mercato illegale ha ridotto a merce silenziosa. Il loro stato di conservazione, sorprendentemente integro, è un indizio eloquente: erano nascosti, sepolti per essere ricordati, non per essere trafugati. Eppure, come spesso accade, l’archeologia riesce là dove il crimine ha tentato l’oblio. Il lavoro capillare degli studiosi, dei restauratori, dei magistrati e delle forze dell’ordine ha permesso non solo di recuperare la materia, ma anche di riannodare il filo del racconto.

Ciò che qui viene esposto non è solo bellezza: è una prova tangibile del rapporto tra archeologia e democrazia. Perché la tutela del patrimonio non è un fatto elitario, ma un dovere civico. È nella difesa dei frammenti che si custodisce l’unità della nazione. La mostra diventa così un laboratorio di coscienza pubblica, un appello alla responsabilità collettiva, un gesto di rigenerazione.

Come insegna la disciplina archeologica, ogni stratigrafia è una memoria ordinata. E se il crimine ha tentato di sovvertire l’ordine del tempo, l’archeologia, con l’aiuto della legge, lo ricompone. Quello che il mercato illegale ha cercato di trasformare in silenzio, torna qui a parlare. E la voce che si leva non è solo quella del passato, ma anche quella di una comunità che, riconoscendo i suoi oggetti, ritrova sé stessa.

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Scritto da
Davide Oliviero -

Laureato in discipline umanistiche presso l'Università di Bologna sotto la guida del Professor Umberto Eco, ha avviato la sua carriera nell'archeologia classica, concentrandosi sulla drammaturgia greco-romana. Il suo interesse per il design lo ha spinto a seguire un corso triennale in design d’interni, continuando nel contempo a lavorare nel campo archeologico. Col tempo, ha sviluppato una passione per la scrittura e la musica classica, che lo ha portato a recensire opere liriche per 14 anni in teatri prestigiosi come il Teatro alla Scala, il Covent Garden e l’Opéra di Parigi. Ha inoltre curato contenuti culturali e musicali per diverse pubblicazioni. Negli ultimi anni ha scritto per la rubrica In Arte, trattando di mostre, teatro e arti letterarie a Roma, collaborando con istituzioni come le Scuderie del Quirinale e i Musei Vaticani. Ha recensito spettacoli teatrali, con particolare attenzione al musical e alla prosa, ed è accreditato presso i principali teatri italiani. La sua competenza lo ha reso un ospite frequente in programmi televisivi culturali, oltre a ricoprire il ruolo di giudice permanente per il Premio Letterario Andrea Camilleri. Attraverso i social media, promuove l’arte e la bellezza, fondendo abilmente leggerezza e profondità, rendendo questi temi accessibili a un vasto pubblico.

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