Il Gianicolo riaccende la sua fiamma: riaperto il Mausoleo Ossario Garibaldino, cuore commosso e civile della città
Ci sono luoghi che non si attraversano, si ascoltano. Sono fatti di pietra, ma custodiscono voci. Voci senza suono, eppure vivide. Il Mausoleo Ossario Garibaldino, sul Gianicolo, è uno di quei luoghi. Riaperto dopo 210 giorni di restauro, torna a parlare alla città con la voce sommessa di chi è stato ucciso non per odio, ma per amore. Amore per una patria che ancora non esisteva. Amore per un’idea di libertà scritta sulle barricate e declamata senza retorica, tra i banchi del popolo.
Non è solo un mausoleo, ma una casa della memoria. Ed è stato riportato al suo decoro con cura e rispetto, attraverso un intervento promosso dalla Sovrintendenza Capitolina e finanziato dal PNRR Caput Mundi per 463mila euro. Un lavoro tecnico, certo, ma soprattutto umano. Non si è trattato di levigare marmi, ma di riconnettere il presente a un passato che ci riguarda ancora. Alla cerimonia erano presenti il sindaco Roberto Gualtieri, l’assessore alla Cultura Massimiliano Smeriglio, e il sovrintendente Claudio Parisi Presicce. Ma a guardare bene, c’erano anche loro: Mameli, Manara, Ciceruacchio. Silenziosi, ma presenti. Perché un monumento, quando si apre, non mostra solo un luogo: evoca presenze.
Nel 1849 qui si combatteva. Roma era una parola nuova, una repubblica sognata da giovani che oggi definiremmo ingenui, e invece erano soltanto audaci. Durò poco quella stagione, eppure la sua eco si è allungata fino a noi. Mameli morì a ventidue anni, e il suo corpo ora riposa nella cripta del mausoleo, tra mosaici dorati, alabastro e frasi scolpite nella memoria. Sopra di lui, una scritta: “Et facere et pati fortiter romanum est”. Fare e patire con forza: è romano. Lo è davvero.
Il monumento che oggi vediamo fu inaugurato nel 1941, progettato da Giovanni Jacobucci, ma nasce da un’idea più antica. Già nel 1879, dopo la Breccia di Porta Pia, Menotti Garibaldi e suo padre avevano voluto raccogliere le ossa dei caduti, disperse tra il Verano, le Mura Aureliane e le vigne romane. Lo fecero con pudore e determinazione. L’Italia non esisteva ancora, ma i suoi figli sì. I loro nomi – oltre 1600 – sono incisi nelle pareti della cripta. Dietro ogni nome, una storia. Un volto. Una famiglia che ha atteso invano un ritorno.
Fu Ezio Garibaldi, negli anni Trenta, a riprendere l’idea di un vero mausoleo, e a proporla al governo fascista che ne accettò la costruzione. Ma ciò che conta è che oggi, al di là della stagione politica che ne vide l’edificazione, il monumento è tornato a essere ciò che era destinato a essere: un luogo del pensiero, del raccoglimento, della civiltà.
Il restauro ha interessato le pavimentazioni, le volte, le infiltrazioni d’acqua. Ma soprattutto ha restituito leggibilità a un’architettura sobria e solenne. Il quadriportico, con i suoi archi in travertino, l’ara in granito rosso di Baveno, i bracieri ai quattro angoli decorati con teste di lupa, tutto qui racconta una romanità che non è imperiale ma repubblicana, non ostenta ma accoglie. Accoglie il visitatore nel silenzio sacro di chi ha lottato. Sul frontone, una frase semplice: “Ai caduti per Roma 1849-1870”. E sotto: “Roma o morte”. Non era un’esagerazione: per molti fu esattamente così.
All’interno, un mosaico d’oro copre il soffitto della cripta, mentre una doppia rampa conduce giù, in un vuoto che fa male. Le pareti sono ornate da marmi, lapidi, citazioni, e loculi ordinati come pagine in una biblioteca del sacrificio. Ogni nome è una parola definitiva. Tra i caduti, non solo militari e poeti: ci sono le donne, come Giuditta Tavani Arquati e Colomba Antonietti, e ci sono gli ultimi, come il popolano Ciceruacchio, fucilato con i suoi figli. Non è un elenco: è una geografia dell’Italia che si voleva costruire. E che, in parte, si è costruita davvero.
L’accostamento con il restauro della latrina romana di via Garibaldi, avvenuto in contemporanea, non è solo una coincidenza: è una metafora. Lì si curano i segni del vivere quotidiano dell’Impero, qui si custodisce il senso del vivere civile della Repubblica. Due spazi, due epoche, un’unica città. Roma non è solo la somma dei suoi monumenti: è il dialogo che essi intessono tra loro e con chi li attraversa.
Oggi il Gianicolo torna a essere non solo un belvedere, ma un luogo di consapevolezza. Ogni turista che si ferma, ogni bambino in gita, ogni anziano che vi passa accanto, entra – anche senza rendersene conto – in una storia più grande. Perché in quei nomi scolpiti, in quelle frasi latine, in quel mosaico d’oro, c’è ancora un’idea di patria che non esclude, ma unisce. Un’idea che ha bisogno di memoria per continuare a vivere.