Dalla nobile visione dei Capranica alla rinascita contemporanea: il più antico teatro moderno d’Europa torna a raccontare la sua epopea di arte, lotta e memoria nel cuore della Capitale.
Nel cuore pulsante di Roma, là dove le strade si incrociano come vene di un corpo antico e ansimante, si trova un edificio che ha il passo e la memoria di un vecchio signore nobile decaduto: il Teatro Valle. Camminando per via del Teatro Valle, non si può non avvertire la presenza silenziosa di una storia che osserva, che trattiene il respiro come una platea nell’attesa del terzo atto. Le pietre, consunte dal tempo e dall’indifferenza, sembrano pronunciare ancora i versi di Metastasio e le battute di Pirandello. La sua facciata, austera e sopravvissuta, non è solo un fondale architettonico: è un volto, forse stanco, ma vivo, che cerca ancora lo sguardo del passante.
La realizzazione del teatro, inizialmente pensato per il solo uso privato, fu finanziata dal nobile Camillo Capranica, già proprietario del teatro Capranica sito nell’omonimo palazzo del rione Colonna. Il progetto fu affidato all’architetto Tommaso Morelli ed esso fu inaugurato il 7 gennaio 1727 con la rappresentazione della tragedia “Matilde” di Simone Falconio Prato. Il teatro, la cui struttura era interamente lignea, si presentava come un classico teatro all’italiana, provvisto di cinque ordini di palchi e un loggione, senza però un foyer effettivo. La programmazione prevedeva l’esecuzione di opere liriche, opere in musica e drammi in prosa. Il nome deriva dal primo direttore del teatro, Domenico Valle, sebbene alcuni sostengano che questa sia in realtà solo una coincidenza, attribuendo l’origine del nome Valle al luogo dove esso sorgeva, detto appunto “alla valle“.
Nel tempo si resero necessari lavori di ammodernamento, così nel 1764 e nel 1765 si operarono delle migliorie su progetto degli architetti Giovanni Francesco Fiori e Mauro Fontana. Il continuo bisogno di manutenzione obbligò la famiglia Capranica ad affidare, nel 1791, nuovi lavori di ristrutturazione ai fratelli Francesco e Giandomenico Navona che, tuttavia, mantennero come i loro colleghi la struttura lignea del teatro operando solo con rinforzi interni sullo stabile. La soluzione non convinse gli architetti dello Stato Pontificio, che ordinò la totale ricostruzione del teatro in muratura, per renderlo idoneo alle norme di sicurezza sugli stabili teatrali.
Nel 1818 i Capranica affidarono quindi la progettazione del nuovo stabile in muratura a Giuseppe Valadier, che optò per una soluzione di largo respiro che prevedeva l’abbattimento di alcuni palazzi adiacenti al teatro (compreso una parte dell’abitazione nobiliare della famiglia Capranica). L’ambizioso progetto fu tuttavia rifiutato e il rifacimento avvenne in forma più modesta, con rinuncia dell’aspetto esterno neoclassicheggiante progettato da Valadier. Per l’erezione della struttura muraria la sala perse un ordine di palchi mentre le dimensioni rimasero pressoché inalterate: gli ordini vennero comunque modulati in linee curve che fornirono eleganza e movimento. Il crollo di una parete del palazzo, che confinava col teatro, implicò il passaggio dei lavori dal Valadier all’architetto Gaspare Salvi, che terminò l’opera nel 1822.
Nel corso del XIX e del XX secolo il teatro fu oggetto di ulteriori ammodernamenti, che videro coinvolti gli affreschi del soffitto, che venne ridipinto dal pittore Silvio Galimberti, il sipario e il palco reale. Nei primi anni del XIX secolo il teatro, nato ad uso privato, fu aperto al pubblico, ottenendo dallo Stato il privilegio di poter inscenare spettacoli anche al di fuori dei periodi canonici consentiti, ossia quelli del carnevale. Giacomo Leopardi visitò il teatro vedendo l’opera “Il corsaro” di Filippo Celli su libretto di Jacopo Ferretti. Nel suo epistolario fu molto critico verso l’opera ma anche verso l’edificio: “il teatro è per lo più deserto, e ci fa un freddo che ammazza”.

Il teatro rimase attivo anche durante il periodo della Repubblica Romana nel 1849 quando molti artisti, tra i quali Tommaso Salvini e Gustavo Modena facenti parte della Guardia Nazionale, interrompevano le proprie rappresentazioni al suono di tre colpi di cannone. Dal 1855 al 1890 operò, di fianco al teatro, un altro teatrino detto Valletto, che aveva in comune col teatro Valle una parete. Nato come teatro per marionette, era gestito da un burattinaio chiamato Antonio Torrini ma venne successivamente adibito ad altri usi.
Nel febbraio 1859 fu rappresentato il dramma “La morte dei fratelli Bandiera“, scritto da Vincenzo Bellagambi, avente non solo la funzione di ricordare, come in questo caso, il fallimento della spedizione in Calabria, ma anche quella di soccorrere con un’altissima idealizzazione del martirio, i patrioti impegnati nella Repubblica Romana. Nel 1895 Eugenio Checchi scrisse, in poche settimane, la commedia “Il piccolo Haydn”, di cui ricorda un allestimento al teatro Valle di Roma della compagnia Bellotto-Bon con Pierina Giagnoni, Pia Marchi, Ermete Novelli, Tebaldo Checchi ed Elena Pieri-Tiozzo.
La storia del Teatro Valle è un lungo palinsesto di debutti eccelsi e crepuscoli malinconici. Lì andarono in scena prime romane e assolute che ancora oggi echeggiano nei manuali: da “Don Giovanni” di Mozart a “Demetrio e Polibio” di Rossini, da “L’ajo nell’imbarazzo” di Donizetti fino all’esplosione del dramma borghese novecentesco con “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello. Ogni volta, il sipario che si sollevava era come una palpebra aperta sull’invisibile, e il buio della sala un grembo pronto ad accogliere stupori, lacrime, risate.
Nel secondo dopoguerra, il Valle divenne presidio culturale sotto l’egida dell’Ente Teatrale Italiano (ETI), fino al 2010, quando quest’ultimo fu soppresso, e sul teatro cominciò a gravare l’ombra della dismissione, come una polvere lenta che tutto ricopre. Fu allora che, il 14 giugno 2011, un gruppo di artisti, tecnici, studenti e cittadini lo occupò, dando vita a un movimento che più che una protesta fu una dichiarazione d’amore in forma politica. Il Teatro Valle Occupato divenne per tre anni uno spazio vivo, una sorta di comune teatrale autogestita, capace di ospitare spettacoli, assemblee, corsi, incontri, nel segno di un’arte restituita al popolo. L’11 agosto 2014 l’occupazione fu sgomberata, ma quel battito rimane ancora, come un’eco nei corridoi.

Nel 2021, un gesto dal forte valore simbolico: il teatro è stato intitolato a Franca Valeri, attrice e intellettuale che meglio di molti ha saputo interpretare l’ironia, la saggezza e la grazia di un’Italia che cambiava. Ma la riapertura non è stata immediata: occorrevano fondi, progetti, burocrazie. Così, mentre Roma si riempiva di altri teatri e altri spettatori, il Valle restava chiuso, come un libro che nessuno ha più il coraggio di sfogliare.
Oggi, finalmente, qualcosa si muove. Dopo anni di attesa, il progetto di restauro è diventato realtà. I lavori sono stati affidati allo studio Berlucchi, specializzato in restauri storici, in collaborazione con la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e il Ministero della Cultura. A realizzarli, il raggruppamento temporaneo di imprese CCC Costruzioni Civili Cerasi e Aurea Sectio. L’investimento complessivo supera i sei milioni e mezzo di euro. Si tratta di un’operazione vasta: restauro conservativo della sala e della facciata valadieriana, rifacimento del palcoscenico, abbattimento delle barriere architettoniche, adeguamento degli impianti, costruzione di nuovi camerini e di una vasca antincendio sotterranea.
In tutto questo, la promessa, più che del sindaco Roberto Gualtieri, sembra essere di Roma stessa: restituire il Valle alla città non come museo di se stesso, ma come luogo vivo e consapevole, capace di custodire la sua storia e insieme rilanciarla nel presente. La mostra ospitata al Teatro Argentina nel 2024, “Il Valle, un teatro gajo e lucido”, ha tracciato un ponte ideale tra passato e futuro, con documenti d’archivio, ricostruzioni grafiche e filmati che hanno restituito la voce di un teatro che ha sempre parlato, anche nei suoi silenzi.
In fondo, il Teatro Valle non è solo un edificio: è un personaggio. E come ogni grande personaggio, merita di tornare in scena, più lucido, più vero, più necessario di prima.