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Edoardo Albinati:“I figli dell’istante”

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Di come il tempo ci attraversa senza chiedere permesso, e solo dopo — troppo tardi — impariamo a chiamarlo vita

Non ricordo un tempo preciso in cui ho cominciato a pensare che i momenti passassero senza che li vivessimo davvero. Forse era già così nei miei anni di liceo, quando l’intervallo tra un desiderio e l’altro si riempiva non tanto di azioni, quanto di esitazioni. Forse per questo I figli dell’istante mi è sembrato, fin dalla prima pagina, non tanto un romanzo quanto un esperimento di archeologia personale: un tentativo di disseppellire dal terreno duro del tempo quegli attimi che ci hanno definiti senza che fossimo presenti alla loro formazione. E senza rendercene conto, abbiamo lasciato che ci formassero al posto nostro.

Ambientato negli anni Ottanta – che non sono un’epoca ma un retrogusto – il libro di Albinati si muove come una corrente sotterranea: non sale in superficie se non per lasciare una scia umida, una macchia nel muro dell’abitudine. Le vicende non si susseguono secondo una logica, ma secondo una vibrazione. Le vite raccontate non procedono, oscillano. Ogni personaggio è una soglia. Ogni dialogo, un’incrinatura.

Nico Quell si arruola, ma non per diventare un uomo: per smettere di esserlo. Vuole dissolversi, come un colore troppo denso nell’acqua. Il servizio militare, in questo contesto, è meno una formazione che una forma di sparizione legalizzata. Nanni Zingone, al contrario, accetta il gioco: si sposa, lavora, si assume responsabilità. Ma è proprio questa sua adesione al copione a consumarlo. In entrambi i casi, non c’è premio né castigo, ma una forma di progressivo scolorimento.

La letteratura ha spesso tentato di dare struttura al caos, ma qui Albinati preferisce osservare il caos da dentro, con una calma clinica, come se si potesse convivere con il disordine senza l’obbligo di riordinarlo. Ci sono ragazze che tacciono amori impossibili, bambini che imparano troppo presto a non chiedere, genitori affaticati dalla propria insignificanza, e adulti che non riescono più a immaginare un futuro, neanche piccolo, che non somigli a una punizione. Nessuno è ridicolo, nessuno è eroico. Tutti sono, semplicemente, esposti.

La vera protagonista, forse, è la coscienza. Quella che arriva sempre dopo, quando tutto è già accaduto. Il tempo non è lineare, è un materiale che si accumula come polvere: silenzioso, fastidioso, invisibile. Le giornate si affastellano senza gerarchia. L’istante, quello del titolo, è l’unica forma possibile di verità, ma proprio per questo è inafferrabile. Si manifesta con la rapidità di una colpa o di una nostalgia, e lascia segni che non coincidono mai con i fatti. È uno squarcio, non una durata.

Albinati scrive come chi sa che la lingua è un territorio minato, eppure ci cammina sopra senza timore, certo che il vero rischio non sia l’esplosione, ma l’indifferenza. Il suo stile non è mai compiacente. Usa parole lunghe, frasi che si allungano come fili di fumo, paragrafi che sembrano voler dire tutto e niente, fino a che una frase, inattesa, arriva e colpisce con la precisione di una pugnalata: “A volte non si sceglie nulla per non dover rimpiangere di aver scelto male.” E allora si capisce che il labirinto serviva solo a raggiungere quell’unico punto, e che senza il labirinto quel punto non sarebbe esistito.

Chi cerca una trama, rimarrà spiazzato. Ma chi cerca un disegno più profondo, una grammatica della nostra esitazione, una partitura del vuoto che ci accompagna quando fingiamo di essere impegnati a vivere – troverà qui un libro generoso, spietato, necessario. Non si legge per sapere come va a finire: si legge per sapere dove abbiamo sbagliato noi. E non per giudicarci, ma per riconoscerci. Anche solo per un istante.

E alla fine, ci si ritrova soli. Non come condanna, ma come condizione. Come Nico. Come Nanni. Come ognuno di noi davanti allo specchio di un tempo che ci ha attraversati senza fermarsi. Lì, in quel secondo in cui non abbiamo detto “ti amo”, in cui non abbiamo chiamato nostro padre, in cui non abbiamo chiesto scusa, si gioca tutta la nostra gloria perduta. O forse la nostra unica, segreta, salvezza.

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Scritto da
Davide Oliviero -

Laureato in discipline umanistiche presso l'Università di Bologna sotto la guida del Professor Umberto Eco, ha avviato la sua carriera nell'archeologia classica, concentrandosi sulla drammaturgia greco-romana. Il suo interesse per il design lo ha spinto a seguire un corso triennale in design d’interni, continuando nel contempo a lavorare nel campo archeologico. Col tempo, ha sviluppato una passione per la scrittura e la musica classica, che lo ha portato a recensire opere liriche per 14 anni in teatri prestigiosi come il Teatro alla Scala, il Covent Garden e l’Opéra di Parigi. Ha inoltre curato contenuti culturali e musicali per diverse pubblicazioni. Negli ultimi anni ha scritto per la rubrica In Arte, trattando di mostre, teatro e arti letterarie a Roma, collaborando con istituzioni come le Scuderie del Quirinale e i Musei Vaticani. Ha recensito spettacoli teatrali, con particolare attenzione al musical e alla prosa, ed è accreditato presso i principali teatri italiani. La sua competenza lo ha reso un ospite frequente in programmi televisivi culturali, oltre a ricoprire il ruolo di giudice permanente per il Premio Letterario Andrea Camilleri. Attraverso i social media, promuove l’arte e la bellezza, fondendo abilmente leggerezza e profondità, rendendo questi temi accessibili a un vasto pubblico.

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