Alla Galleria Nazionale, un’epifania simbolica tra mito, materia e dissidenza plastica
Ahmet Güneştekin, artista turco di origine curda, occupa le sale della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea con un gesto di forte carica simbolica e teoretica: YOKTUNUZ, “Eravate assenti”, non è una mostra, ma un’azione di poetica stratificazione che investe lo spazio museale come un campo energetico, rituale e politico. Le sue opere non si collocano, irrompono. Non decorano, feriscono. L’artista non si accontenta di suggerire, incide. Güneştekin, come un artista-chirurgo, apre la superficie del visibile per farne affiorare la carne viva dell’assenza.
Lo spazio della GNAM non è solo contenitore, ma corpo reattivo, topografia ideologica su cui l’artista innesta il proprio immaginario: un impasto di miti anatolici, memorie mesopotamiche, echi mediterranei, icone senza tempo che si fanno forma e materia. Il mito non è qui un’eco nostalgica, ma una lente deformante attraverso cui leggere la storia collettiva come ferita stratificata. Güneştekin rifiuta l’identità come dato e l’arte come illustrazione. Opera per accumulo, interferenza, sincretismo: ogni oggetto è un organismo, ogni scultura un totem psichico, ogni superficie un deposito semiotico che rilancia senso e ambiguità.

L’installazione che dà il titolo all’esposizione si confronta con l’Ercole e Lica di Canova, e già questo incontro basta a definire l’operazione: classicismo e trauma, forma e ossessione, marmo e metallo, mitologia occidentale e sacralità sradicata. L’opera di Güneştekin si staglia accanto a quella del maestro neoclassico non per contrasto, ma per collisione. La bellezza muscolare di Canova è sottoposta a un processo di disturbo, a un’alterazione simbolica che la sottrae alla sua retorica fondativa. Lo scontro non è formale, è ontologico. L’arte qui non consola, smaschera.
Güneştekin lavora con materiali che non si lasciano addomesticare: ferro, rame, vetro, pigmenti esplosi, superfici taglienti e ossidate. L’opera diventa talismano e monumento, reliquia e detonatore. Ogni oggetto è costruito per essere toccato dallo sguardo e per lasciare una traccia nell’occhio. Ma non si tratta di fascinazione estetica: è un processo di cattura. L’arte come trappola della memoria, come oracolo muto di ciò che non può più essere detto. Non c’è rappresentazione, c’è evocazione. Non c’è spiegazione, ma incantamento.
La mostra si struttura come un attraversamento. Il visitatore non osserva: entra in un paesaggio mentale, in un atlante visionario che non pretende di informare, ma di infettare. Le forme sono eccessive, sovradeterminate, dense. Non si spiegano, si abitano. L’immagine diventa spazio mentale, la materia prende parola. Non si è di fronte a un artista che dipinge o scolpisce, ma a un creatore di cosmogonie frammentarie, a un alchimista visivo che trasforma il trauma in oggetto, la storia in geometria, la memoria in ornamento sacro.

Güneştekin non lavora dentro l’arte contemporanea, la attraversa come un corpo rituale che deve essere risvegliato. La sua opera è un esercizio di archeologia simbolica, una sfida alle logiche del presente museificato. La GNAM, tempio laico dell’arte italiana, accoglie così un artista che ne decostruisce le fondamenta: ogni sala attraversata dalle sue opere viene defunzionalizzata, contaminata, resa instabile. La collezione permanente non è più lo sfondo, ma l’antagonista. L’arte moderna, con il suo racconto lineare e razionale, si trova contrapposta a una grammatica del sacro che non chiede permesso, ma impone la propria presenza.
Il curatore Sergio Risaliti, assieme a Paola Marino, non organizza, ma orchestra: compone un percorso di fratture, di attriti, di sospensioni. Il dialogo non è mai simmetrico, ma obliquo, tagliente, irregolare. Ogni opera è una soglia. Ogni soglia un enigma. Il museo diventa un labirinto della percezione, un teatro dell’invisibile dove ogni elemento visivo si carica di stratificazioni culturali che eccedono la narrazione ufficiale. È il ritorno del sacro senza religione, del rito senza fede, dell’immagine come dispositivo di accesso all’inconscio collettivo.
Non c’è ideologia dichiarata, ma una postura politica netta: ogni oggetto esposto è anche una dichiarazione di dissidenza. L’assenza evocata dal titolo non è solo biografica o etnica, ma ontologica. Eravate assenti dice all’osservatore: non avete visto, non avete ascoltato, non avete custodito. È un’accusa. Ma anche un invito al risveglio. L’arte, in questa visione, non è mai pacificata, ma sempre tesa, sempre esposta a un eccesso di senso che la eccede. E proprio per questo, profondamente necessaria.

Güneştekin plasma un’opera-mondo, un’arte totale che tiene insieme memoria e forma, lutto e ornamento, sacralità e spettacolo. Non è pittore, non è scultore, è liturgo visivo, architetto simbolico, regista di un teatro della perdita. Le sue opere non documentano il trauma: lo mettono in scena. E nel farlo, lo trasmutano. Non siamo di fronte alla malinconia dell’assenza, ma alla sua apoteosi plastica. L’assenza, qui, prende corpo. E pretende di essere guardata.
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