Il restauro del Giudizio universale e la retorica dell’“overtourism”
Nel gennaio 2026 avrà inizio un nuovo intervento di restauro sul Giudizio universale di Michelangelo, capolavoro assoluto della Cappella Sistina. Tre mesi di lavori, ponteggi e restauratori all’opera per garantire la piena leggibilità di una delle opere più note della civiltà occidentale. Si tratta di un restauro programmato e doveroso: le grandi pitture murali necessitano di manutenzione costante, e il Vaticano da decenni ha sviluppato protocolli accurati per monitorare le condizioni di conservazione della Sistina.
Eppure, come spesso accade, la comunicazione ufficiale ha insistito su una motivazione che merita attenzione: l’enorme afflusso di visitatori, definito oggi con un termine ormai di moda, overtourism. È evidente che la presenza quotidiana di migliaia di persone in uno spazio chiuso influisce sugli equilibri microclimatici, ma ridurre l’intervento a questa sola causa appare semplificante. La realtà è più complessa: ogni opera monumentale vive una propria storia materiale, e il degrado è il risultato di più fattori, non solo del fiato dei turisti.
Qui sta il punto: il lessico usato. Parlare di overtourism può sembrare efficace, ma risulta anche modaiolo e poco accademico. La pittura murale del Cinquecento non si conserva o si degrada sulla base di slogan, ma attraverso dinamiche chimiche, fisiche e ambientali precise, studiate e controllate. Un linguaggio che insiste sulla fragilità e sulla “minaccia” rischia, paradossalmente, di non trasmettere sicurezza. Anziché comunicare il rigore della manutenzione e la solidità dei protocolli, alimenta l’impressione di un patrimonio sempre in bilico, pronto a cedere al minimo soffio.
Il Giudizio universale, completato nel 1541, ha attraversato secoli di candele, polveri, restauri e censure. Ogni epoca vi ha lasciato tracce, e ciò che vediamo oggi è il risultato di stratificazioni storiche. Questo non significa che l’opera sia indistruttibile, ma che la sua resistenza è stata comprovata nei secoli. Un restauro non va dunque presentato come una corsa contro il tempo per salvare l’opera dai turisti, bensì come parte di una manutenzione programmata, frutto di una tradizione ormai consolidata di cura e tutela.
Il nuovo responsabile del Laboratorio Restauro dipinti dei Musei Vaticani, Paolo Violini, ha sottolineato l’entità e l’organizzazione del cantiere: un ponteggio a più livelli, fino a dodici piani, con la possibilità di far lavorare contemporaneamente dieci o dodici restauratori. Una macchina complessa e pianificata, che permetterà di concludere l’intervento entro la Settimana Santa. Qui emerge il lato positivo della comunicazione: la precisione nel dettagliare tempi, metodi, scelte operative.
Il tema del linguaggio resta tuttavia cruciale. Non si tratta di negare l’impatto del turismo, ma di evitare che l’opera venga percepita come un bene fragile, sospeso tra salvezza e rovina. Il restauro è doveroso, certo, ma non è emergenza: è il proseguimento di un lavoro calcolato, che assicura continuità e stabilità.
In parallelo, i Musei Vaticani avvieranno il restauro della Loggia di Raffaello, con le celebri grottesche di Giovanni da Udine: qui il lessico cambia, e si parla di valorizzazione, di recupero, di un progetto quinquennale. Ecco un esempio di comunicazione più sobria, che restituisce al pubblico l’idea di un’istituzione che lavora con tempi lunghi e con metodo.
Il restauro del Giudizio universale è dunque un’occasione per riflettere non solo sulla conservazione, ma anche sul modo in cui la si racconta. Michelangelo non dipinse un affresco fragile: dipinse un universo di corpi potenti, di cieli aperti e di destini eterni. Trattarlo come un’opera da difendere contro orde minacciose significa ridurlo. Riconoscerlo invece come un monumento che necessita di cura continua, e comunicarlo con sobrietà e chiarezza, significa rispettarne davvero la grandezza.