I Musei Vaticani restituiscono al pubblico e alla comunità scientifica la Sala di Costantino, il più esteso e complesso degli ambienti delle Stanze di Raffaello. Un restauro durato anni, che ha coinvolto restauratori, storici dell’arte, chimici e diagnostici, e che oggi consente di leggere nuovamente, e con più consapevolezza, una delle più articolate imprese decorative del Cinquecento romano. Un progetto, è bene ricordarlo, iniziato da Raffaello ma concluso – con tecniche e mani diverse – in più fasi, fino alla fine del secolo.
L’ambiente, noto alle fonti come Aula Pontificum Superior, era destinato a cerimonie solenni e momenti di alta rappresentanza della corte pontificia. La sua dedicazione a Costantino non è casuale: la figura dell’imperatore convertito è funzionale a costruire una narrazione di continuità tra il potere imperiale e quello papale. La pittura, qui, è chiamata a fare più che decorare: deve legittimare.
Il primo intervento fu di Raffaello, che nella Sala sperimentò qualcosa di nuovo: la pittura a olio su muro. Le due figure allegoriche della Comitas e della Iustitia, le uniche realizzate di sua mano, mostrano un linguaggio più pittorico, morbido, sensibile alla luce. Le indagini scientifiche hanno confermato l’uso di colofonia – una resina applicata a caldo – come base preparatoria. Un approccio tecnico inedito per l’epoca, pensato per ottenere effetti tonali più profondi. Ma la morte prematura dell’artista cambiò i piani.
A portare avanti l’impresa furono Giulio Romano e Giovanni Francesco Penni, che tornarono alla tecnica dell’affresco per motivi di praticità. Le quattro grandi scene – Visione della Croce, Battaglia di Ponte Milvio, Battesimo di Costantino e Donazione di Roma – formano un ciclo narrativo coerente sul piano iconografico, ma stilisticamente disomogeneo. Le mani si moltiplicano, la qualità oscilla, l’enfasi teatrale cresce. Il risultato non è un capolavoro univoco, ma un documento dell’epoca: un cantiere collettivo segnato da ambizioni politiche, compromessi tecnici e stratificazioni operative.
Il restauro ha seguito questo stesso approccio analitico: ogni intervento è stato calibrato su base diagnostica, grazie a rilievi multispettrali, riflettografie IR, fluorescenze UV e spettrometrie puntuali. Le “giornate” d’affresco sono state mappate, permettendo di comprendere meglio la cronologia interna del lavoro e le suddivisioni tra i diversi esecutori. Il colore è tornato a respirare, le ombre si sono precisate, le patine sono state rimosse senza appiattire la materia pittorica. Non è stato un intervento cosmetico, ma filologico.
Un altro elemento fondamentale del progetto è stato il recupero della volta, realizzata in epoca successiva da Tommaso Laureti, pittore bolognese e seguace di Sebastiano del Piombo. La sua decorazione – il Trionfo del Cristianesimo sul Paganesimo – è una vera macchina illusionistica: un finto arazzo trattenuto da cinghie, dipinto secondo la grammatica del trompe-l’œil. Oggi, dopo la pulitura, l’impianto prospettico e le pieghe simulate tornano a mostrarsi con efficacia, anche se l’impostazione narrativa è più ideologica che poetica.
Il cantiere è stato anche un’occasione museologica: i lavori sono stati condotti “a vista”, con ponteggi accessibili e percorsi integrati, secondo un’idea di restauro come processo partecipato. L’intera sala è stata inoltre digitalizzata, con modellazione tridimensionale, fornendo un supporto importante per la ricerca e la didattica.
Il risultato finale non è l’esaltazione di un capolavoro, ma il recupero di un complesso stratificato. La Sala di Costantino si offre oggi come una macchina visiva del potere, costruita da più mani in tempi diversi, e restituita alla lettura come documento storico oltre che artistico. Un esempio concreto di come la conservazione possa restituire senso critico, e non solo brillantezza, all’opera d’arte.