Dallo spirito pionieristico di Mario Mieli alle tensioni tra Roma Pride e Priot Pride: viaggio nella storia del movimento LGBTQIA+ italiano tra battaglie civili, fratture ideologiche e la persistente urgenza della visibilità.
“Desideriamo l’amore, desideriamo la libertà, desideriamo la fine dell’oppressione.”
— Mario Mieli, “Elementi di critica omosessuale”, 1977
Nella scintilla originaria del pensiero rivoluzionario di Mario Mieli – filosofo, attivista e tra i padri fondatori del movimento omosessuale italiano – si custodisce l’essenza profonda di ciò che oggi chiamiamo Pride. Non una festa, non un brand, ma un’azione politica, un grido visibile di esistenza e autodeterminazione. Quell’anelito alla liberazione del desiderio, espresso già negli anni Settanta, è il seme da cui ha preso forma il lungo e faticoso percorso del Pride in Italia.
La storia dell’orgoglio LGBTQIA+ italiano inizia ufficialmente nel 1994, con il primo Pride nazionale organizzato a Roma. Fu una manifestazione ancora incerta nei numeri, ma epocale per il contesto sociale: in un’Italia che usciva appena dalle stigmatizzazioni dell’AIDS, la visibilità pubblica dei corpi e degli amori non eteronormati fu un gesto dirompente. Da allora, ogni anno, le città italiane si sono riempite di colori, corpi, voci e slogan. Il Pride è diventato rito collettivo e palcoscenico politico, luogo di affermazione identitaria ma anche di lotta per i diritti negati: unioni civili, adozioni, autodeterminazione di genere, contrasto alla violenza omotransfobica.
Nel 2000, sempre a Roma, si tenne l’Europride, che rappresentò un momento di apertura internazionale, culminato con la partecipazione di oltre 250.000 persone. Ma è con il World Pride del 2011 – ancora a Roma – che l’Italia si trova al centro dell’attenzione mondiale: una celebrazione della visibilità queer nel cuore della cristianità, a pochi passi dalla sede del potere religioso più influente d’Europa.
Tuttavia, come ogni movimento vivo, anche il Pride italiano non è immune da contraddizioni. Nel 2024, a Napoli, la polemica sull’esclusione di gruppi pro Palestina dal corteo fece emergere tensioni mai sopite tra attivismo radicale e gestione mainstream. Ma è Roma, quest’anno, a diventare il simbolo di una frattura più evidente.
Sabato 14 giugno 2025, nella Capitale si tengono due manifestazioni parallele, entrambe alle ore 16: da una parte piazza della Repubblica, da dove parte il Roma Pride, con l’obiettivo dichiarato di raggiungere un milione di partecipanti e la popstar Rose Villain come madrina dell’evento. Dall’altra, a piazzale Ostiense, si raduna il Priot Pride, definito “cucciolata transfemminista queer”, un’alternativa dichiaratamente radicale, anti-capitalista e pro Palestina.
“È il terzo anno che viene organizzato il Priot Pride. Sono delle cucciole, delle bambine. Si divertissero così”, ha dichiarato con ironia il portavoce del Roma Pride, Mario Colamarino. Dietro il tono sferzante si cela una frattura ben più profonda: quella tra chi ritiene il Pride uno strumento d’inclusione capace di dialogare con le istituzioni e il mondo commerciale, e chi lo rivendica come spazio autonomo di resistenza, libero da logiche di potere, consumo e compromesso.
La polemica si è accesa anche intorno alla questione palestinese. Il Roma Pride è stato accusato di annoverare tra i suoi sponsor marchi come Starbucks, inseriti nell’app “No Thanks”, che elenca aziende coinvolte in affari con Israele. Influencer come Willwoosh (Guglielmo Scilla) e l’avvocata Cathy La Torre hanno denunciato pubblicamente queste scelte, alimentando un acceso dibattito sui social. Colamarino ha respinto le accuse definendole “fake news” e ha ribadito la posizione del Pride romano, che nel suo manifesto ha condannato “la strage in corso perpetrata dal governo israeliano, che sembra puntare all’annientamento di un popolo”.
Nel corteo di piazza della Repubblica saranno comunque presenti movimenti pro Palestina, anche se “informalmente”, e una delegazione ebraica LGBTQ+ europea, Keshet Europe, ha confermato la propria partecipazione. “Gli ebrei non devono aver paura di scendere in piazza per il Pride”, ha aggiunto Colamarino.
Nel frattempo, il Priot Pride si fa portavoce di un attivismo queer transfemminista che abbraccia apertamente la causa palestinese, dichiarando di voler rompere con un Pride ritenuto “complice del sistema”. Le attiviste hanno tappezzato i muri di Roma coprendo i manifesti ufficiali del Roma Pride con i propri, e sui canali social hanno ribadito che la manifestazione non è uno spazio per chi si identifica con orgoglio come “uomo cis”.
È il Pride stesso, allora, a diventare luogo del conflitto. Ma forse è proprio in questo che si misura la sua vitalità. Il movimento LGBTQIA+ italiano non è mai stato monolitico: dalle lotte del Fuori! di Angelo Pezzana alle provocazioni di Mieli, dai Gay Pride degli anni Novanta fino alla pluralità queer odierna, la storia dell’orgoglio italiano è una storia di dialettica, di divergenze, di sintesi mai definitive. Il Pride è luogo di alleanze ma anche di rotture, e la sua efficacia sta proprio nella sua capacità di contenere molteplicità.
C’è chi guarda con amarezza a queste divisioni. Ma chi conosce la storia sa che la comunità LGBTQIA+ ha sempre camminato sul crinale delle contraddizioni: desiderando l’uguaglianza senza rinunciare alla differenza, cercando accoglienza senza svendersi, chiedendo diritti senza perdere radicalità.
Se dunque oggi, a Roma, due Pride percorrono strade diverse, non è un fallimento. È forse, nel suo senso più autentico, un segno di libertà. Di quella libertà invocata da Mario Mieli, che non accetta pacificazioni facili, ma si alimenta del conflitto, del desiderio e della necessità di immaginare un mondo altro, dove ogni soggettività abbia diritto di parola e di corpo.