Il giardino ritrovato: la casa del profumiere e l’archeologia delle essenze a Pompei
Tra le crepe della storia e le pieghe di un paesaggio sepolto, riaffiora oggi una visione che non appartiene soltanto alla nostalgia della rovina, ma alla restituzione di un’unità perduta tra architettura, natura e produzione. È questo il senso profondo della ricostruzione filologica del giardino della cosiddetta Casa del Giardino di Ercole a Pompei, una domus di III secolo a.C. rientrante nell’Insula 8 della Regio VI, che diviene ora spazio archeologico vivo, centro di un’indagine che fonde filologia botanica e archeologia stratigrafica, memoria sensoriale e analisi funzionale.
La casa, talvolta indicata anche come “domus del profumiere” per le testimonianze inequivocabili della produzione di unguenti e aromi, è oggi oggetto di un intervento di valorizzazione che ha saputo unire rigore scientifico e progettualità paesaggistica. L’esito non è una semplice messa in scena floristica, ma un gesto interpretativo colto, che restituisce al visitatore moderno – come all’erudito – la possibilità di pensare la casa antica non come vuoto scenico, ma come organismo vitale, radicato in una precisa economia e in una cultura del quotidiano.
Il progetto, realizzato con la consulenza scientifica di archeologi, botanici e agronomi, e grazie al sostegno dell’associazione Rosantiqua, ha previsto il ripristino del piano di campagna originario e del sistema idrico, nonché la piantumazione di oltre 800 rose antiche, 1.200 viole, 1.000 esemplari di ruscus, insieme a viti, meli cotogni e ciliegi. Non si tratta di un’operazione decorativa: ogni essenza ha una sua ragion d’essere, una sua storia documentata. Gli studi di Wilhelmina F. Jashemski, pioniera della garden archaeology, forniscono la base scientifica per la selezione delle specie: la presenza di pollini, macroresti e impronte radicali ha indicato non solo cosa fosse coltivato, ma perché. In questo luogo la natura non è mai stata accessoria, ma materia prima di una filiera produttiva di oli e profumi.
Il giardino, dunque, non come semplice hortus, ma come officina. Un giardino da cui si trae reddito, i cui fiori sono destinati al mercato, come dimostrano le bottigliette di vetro e gli strumenti di distillazione rinvenuti durante le indagini condotte tra il 1953 e il 1988. La Casa dell’Ercole – così chiamata per la piccola statua marmorea rinvenuta nel larario – si trasforma, nella seconda metà del I secolo d.C., in un’unità produttiva che ingloba le abitazioni limitrofe, in un’operazione di accorpamento edilizio posteriore al terremoto del 62 d.C. Un atto di resilienza economica, potremmo dire, in una città che si ricostruisce reinventando i propri spazi secondo nuove logiche funzionali.
Nessuna di queste trasformazioni è arbitraria. La domus conserva ancora l’iscrizione “cras credo” (“domani si fa credito”) all’ingresso: segno, forse, di una bottega o di un’attività artigianale connessa all’uso dello spazio domestico. L’organizzazione planimetrica – otto ambienti principali e un vasto giardino con triclinio estivo – racconta l’intreccio, tipico del mondo romano, tra otium e negotium. Nulla è scisso, tutto è fuso: vivere, produrre, contemplare.
Il ripristino del giardino – inclusa la ricostruzione dei pergolati di viti – è stato accompagnato da un intervento sulle strutture, finalizzato a rendere accessibili e leggibili alcuni spazi interni della casa. Non va dimenticato, infatti, che la valorizzazione dei contesti pompeiani non può risolversi in un’operazione cosmetica: occorre restituire relazioni, gerarchie spaziali, flussi di vita. L’archeologia non è esposizione di oggetti, ma riscrittura del vissuto.
In questa riscrittura, un ruolo centrale è stato giocato dalla riproduzione in terracotta della statua di Ercole, oggi nuovamente posta nel larario accanto all’area del triclinio. L’immagine del dio si offre così non come icona estetizzante, ma come segno cultuale reinserito nel proprio spazio funzionale. In questo gesto, il restauro si fa liturgia laica della memoria.
L’intervento, promosso dal Parco Archeologico di Pompei sotto la direzione di Gabriel Zuchtriegel, si distingue anche per un approccio esemplare al rapporto tra pubblico e privato. Le sinergie tra amministrazione statale e soggetti esterni – dall’associazione Rosantiqua al Dipartimento di Agraria dell’Università Federico II – mostrano come l’archeologia possa oggi articolarsi in una pluralità di competenze, superando la sterile opposizione tra tutela e valorizzazione. Il verde, un tempo percepito come intruso o elemento disordinato nei contesti archeologici, è oggi riconosciuto come componente essenziale della lettura dei siti. Il paesaggio non è lo sfondo della rovina: è la rovina stessa nella sua pienezza originaria.
A sottolineare la portata scientifica del progetto, vanno menzionati i nomi degli studiosi coinvolti: Antonio De Simone e Salvatore Ciro Nappo per gli aspetti archeologici; Michele Borgongino per quelli botanici; Luigi Frusciante e Gaetano Di Pasquale per l’analisi agronomica. Coordinati dal Parco, sotto la guida di Paolo Mighetto, Maria Rispoli, Anna Onesti e l’Area Verde, questi esperti hanno garantito che la restituzione non si fondasse su suggestioni ma su evidenze documentate, trasformando un’operazione di allestimento in un modello di ricerca applicata.
A partire dall’11 giugno, la casa è visitabile ogni martedì come “casa del giorno”: una scelta simbolica che sottolinea la volontà di restituire al pubblico non soltanto spazi, ma significati. In un tempo che spesso riduce Pompei a icona turistica o a contenitore di eventi, questa operazione ci ricorda che le domus non sono quinte teatrali, ma microcosmi dotati di una loro economia interna, di una loro funzione simbolica, di una loro voce.
Questa voce, oggi, torna a parlarsi attraverso il profumo delle viole e il silenzio geometrico dei filari di rose antiche. Un ritorno non alla Pompei del pittoresco, ma a quella delle relazioni economiche, dei cicli produttivi, dell’equilibrio fragile tra uomo, tempo e terra. Qui, in questo giardino risorto, la storia non si contempla: si annusa, si calpesta, si cammina. E diventa pensiero.
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