Dopo “Piccola” e “Zero Pensieri”, Daniele Incicco ha compiuto un passo decisivo nel suo percorso da solista con “Rimandato a Settembre”, un brano che ha il coraggio di guardarsi dentro senza filtri. Pubblicato da Lungomare Srl e distribuito da Believe, il singolo è una piccola radiografia dell’animo umano, capace di trasformare la vulnerabilità in linguaggio e il fallimento in occasione di rinascita.
Prodotto da Vanni Casagrande — già al fianco di nomi come Elisa, Fabri Fibra e Jovanotti — il pezzo mette insieme intensità emotiva e solidità sonora, trovando nella voce di Incicco un punto di equilibrio raro: quello tra confessione e catarsi.
La copertina, scattata nella casa natale dell’artista da Alessio Panichi, è un manifesto visivo di questa nudità interiore: un uomo con il “dunce cap”, il cappello dei somari, che emerge da un armadio come a dire che la vergogna non va nascosta, ma capita. Abbiamo intervistato Daniele per parlare di fragilità, consapevolezza e di quella continua sfida che è il crescere senza smettere di essere veri.
Il titolo del tuo nuovo singolo, “Rimandato a Settembre”, è una metafora potente. In quale momento della tua vita ti sei sentito davvero “rimandato a settembre”?
Mi sono sentito rimandato a settembre quasi per tutto il periodo scolastico della mia vita. Probabilmente un avvenimento del passato aveva corrotto il mio livello di felicità — ma soprattutto aveva incrinato la mia fiducia nel futuro, nella vita, e nel fatto che la scuola potesse davvero darmi un insegnamento capace di aprirmi delle strade. Avevo bisogno di altro. Forse quel “rimandato a settembre” era, in realtà, un urlo: un richiamo d’attenzione.
Nel brano parli di inadeguatezza e fallimento con grande sincerità. È stato difficile trasformare una fragilità personale in una canzone?
Per me è sempre stato più facile trasformare le emozioni in musica piuttosto che viverle ed elaborarle. Mi viene naturale metterle in una canzone, più che affrontarle o superarle. Le ho sempre custodite con una certa gelosia, e forse, con il tempo, sono diventate una sorta di bussola che mi porta spesso dentro ai miei brani.
L’immagine del “dunce cap” in copertina è molto evocativa. Come è nata l’idea di rappresentarti in quel modo e che significato ha per te?
Il dunce cap è stata una visione del mio caro amico e grandissimo artista Pietro Cardarelli. Con lui ho avuto una conversazione profondissima sul significato del brano e sulle motivazioni che mi hanno portato a scriverlo, perché avremmo dovuto condividere insieme anche il videoclip. Dopo qualche giorno, Pietro è tornato da me proponendomi di racchiudere tutto quel senso di fallimento, inadeguatezza e bocciatura in un simbolo, in qualcosa di visivamente chiaro. Mi ha proposto il dunce cap, il cappello che un tempo veniva messo ai “somari” a scuola. Quel simbolo rappresenta perfettamente lo stato d’animo che, ancora oggi, mi capita spesso di provare.
Hai definito la vita come una grande scuola. Se dovessi dare un voto alla tua “crescita personale” finora, quale sarebbe e perché?
Mi è sempre stato detto che la vita è una grande scuola. Ho sentito spesso questa frase, soprattutto da chi era più grande di me, e per molto tempo non ho capito fino in fondo cosa volesse dire. Non so se è davvero la vita a insegnarti attraverso gli avvenimenti, o se è quella parte di te che, nei momenti difficili, si sente oppressa dal non essere ancora cresciuta abbastanza. Per “crescita” non intendo la distanza tra l’infanzia e l’età adulta, ma qualcosa di più profondo: la capacità dell’adulto che siamo di proteggere la fiamma del bambino che portiamo dentro, di tenerla accesa nonostante le intemperie della vita. Spesso mi sono trovato costretto a crescere, ma quel tipo di crescita — quella che la società ci impone, fatta di abbandoni e rinunce — non l’ho mai davvero voluta affrontare. Ho preferito costruire una corazza attorno al bambino che sono, per continuare a prendermene cura ogni giorno.1
La produzione di Vanni Casagrande dà al brano una forza nuova. Com’è stato lavorare insieme e in che modo ha influenzato il suono finale del pezzo?
Lavorare con Vanni Casagrande è stato magico, salvifico, innovativo e profondo — tutto ciò che si possa desiderare da una collaborazione vera. Ci conosciamo da anni, ma non avevamo mai condiviso davvero un brano dall’inizio alla fine, solo esperienze marginali. Questa volta, invece, c’è stata una condivisione totale. Quando gli ho fatto ascoltare il pezzo, ha capito subito che dentro c’era qualcosa di importante e ha voluto sapere tutto. Da lì sono nate giornate infinite di conversazioni, confronti, scambi culturali, artistici e musicali. Abbiamo ripensato il brano da capo, spogliandolo di tutti gli schemi che spesso finiscono dentro le canzoni e che appartengono a quella parte di noi che cerca solo attenzione. Abbiamo scelto di lasciare la purezza dell’avvenimento, la sincerità del messaggio e la verità del suono. In Vanni ho trovato non solo un artista straordinario, ma una persona dotata di un’intelligenza emotiva acuta e di una profondità rara.
Cosa rappresenta questo nuovo capitolo nella tua evoluzione artistica?
Questo nuovo capitolo segna una ricerca sempre più profonda del significato e della sincerità dei concetti che porto dentro le canzoni. Sto cercando di abbandonare qualsiasi schema ricorsivo legato al raggiungimento di un obiettivo diverso da quello della qualità stessa del lavoro. Oggi punto tutto sulla canzone, sul messaggio nella sua forma più pura — come se avesse una sacralità legata alla sorgente che lo ha generato. Cerco di non aggiungere troppo, di arrivare all’essenza. È una strada complessa, ma è quella che mi fa sentire di aver compiuto ogni volta un piccolo, grande passo in avanti.
La canzone parla anche di errori e assenze. C’è un errore che oggi consideri un punto di svolta nella tua carriera o nella tua vita personale?
Dietro questa canzone c’è un grandissimo senso di colpa. Un peso che mi sono portato dietro per anni e che non so se svelerò mai del tutto. È qualcosa che ha pilotato la mia vita, che ne ha cambiato il corso e il futuro. Non è solo un evento in sé, ma il mio modo di averlo vissuto: quel senso di colpa ha scritto, in un certo senso, tutte le pagine della mia esistenza. Il mio lavoro, oggi, è stato scavare dentro quel dolore, ristrutturare i pensieri che mi riportavano sempre lì e cambiare radicalmente tutto ciò che avevo collegato a quella “insufficienza”. È qualcosa che ha cambiato la mia vita più di quanto chiunque possa immaginare. E sono riuscito a guardarlo con occhi nuovi grazie a una persona speciale che mi ha accompagnato in questi anni, insegnandomi a vedere oltre lo sguardo che aveva gli occhiali del passato.
La copertina è stata scattata nella tua casa natale. Quanto contano per te le radici e quanto tornano nella tua musica?
La copertina è una genialata del mio grandissimo amico e super-artista Alessio Panichi, così come lo sono Pietro e Vanni nei loro ruoli. Con Alessio c’è stato un confronto profondo: dopo aver visto il lavoro realizzato da Pietro Cardarelli, abbiamo capito che serviva un vero upgrade anche sul piano visivo. Alessio ha saputo riconoscere perfettamente gli spazi, spesso angusti, dove quelle parti di me si nascondono o si rifugiano. La sua visione è stata quella di aprire un armadio e lasciar uscire solo quella parte di me, chiudendo tutto il resto dentro. Ha messo una lente d’ingrandimento su quel senso di colpa, sul cuore del brano. I suoi scatti sono sempre intensi e significativi, ma in questo credo abbia raggiunto qualcosa di speciale: Alessio ha capito cosa si nascondeva dentro gli spazi nascosti della mia casa e della mia testa.
Hai un modo di scrivere molto diretto ma sempre poetico. Da dove nasce la tua ispirazione e come nasce solitamente una tua canzone?
La mia fonte di ispirazione è la vita — la mia, e a volte quella degli altri. Non so da dove arrivi, né quando, e spesso non so nemmeno come gestirla, perché arriva nei momenti più improbabili. Mi è capitato di segnarmi parole o frasi mentre ero a tartufi, durante una festa in un locale, o mentre passavo del tempo ad ascoltare una persona. A volte è successo dopo un abbraccio, altre volte dopo una perdita. Non c’è un momento esatto, ce ne sono molti. Credo davvero che l’unica vera ispirazione sia la vita. Ogni volta che ho provato a scrivere senza guardare a essa, è venuto fuori qualcosa di plastico, che ho sempre cestinato. Quando invece lascio fluire le cose, le canzoni arrivano a trovarmi — e se sono fortunato, riesco a trattenerle. Altre volte, invece, mi scappano via. Non vado a cercarle, anzi, a volte scappo io da loro. Faccio una vita piena e densa di tante altre cose, e oggi la musica è per me un punto fondamentale, ma non necessario. Non voglio che sia la fame di arrivare a guidarmi: voglio che siano le canzoni a venirmi incontro quando è il momento giusto.
Guardando avanti, dopo “Rimandato a Settembre”, cosa possiamo aspettarci da te? Un nuovo album, nuove collaborazioni o magari un tour?
Ci sarà sicuramente un album e un tour. Le collaborazioni continueranno, ma non credo che ci saranno feat in senso stretto: queste canzoni appartengono profondamente alla mia sfera personale, ed è sempre complicato condividerle con altri artisti. Il tour, invece, è qualcosa di cui sento davvero il bisogno. Ho necessità di tornare a confrontarmi con il pubblico, di raccontare queste storie dal vivo, di vedere i volti delle persone e cantare insieme a loro le mie parole.
