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STRE e il suo “Spaventapasseri”: quando la fragilità diventa forza

Il cantautore e regista napoletano racconta il nuovo singolo che intreccia malinconia e ironia, tra cuore di paglia e bisogno d’abbraccio.

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C’è un’immagine che ha acceso tutto: quella di uno spaventapasseri con le braccia spalancate, in cerca d’abbraccio. Da lì è nata “Spaventapasseri”, il nuovo singolo di STRE, cantautore e regista napoletano capace di fondere leggerezza e introspezione in una poetica dal respiro pop contemporaneo.

Il brano, disponibile in radio e sulle piattaforme digitali, racconta la sensibilità di chi si sente fuori posto, di chi osserva il mondo restando fermo, ma con un cuore che continua a battere forte. “Lo spaventapasseri – spiega STREè fragile e fermo, ma anche attento e vivo. Quelle braccia tese non spaventano: chiedono affetto”.

Con la sua miscela di suoni acustici e texture elettroniche, “Spaventapasseri” restituisce un’atmosfera sospesa tra passato e presente, tra malinconia e ironia. Un equilibrio che si ritrova anche nel videoclip, diretto dallo stesso artista, dove realtà e immaginazione si fondono fino a quell’abbraccio finale che diventa simbolo di autoaccettazione e libertà emotiva.

Stre intervista
La cover di “Spaventapasseri”, il nuovo singolo di STRE

Un gesto semplice ma universale, che racchiude la poetica di STRE: trasformare la vulnerabilità in bellezza, e la solitudine in un atto d’amore verso sé stessi. Dietro le note di Spaventapasseri si nasconde molto più di una canzone: c’è un autoritratto sincero, fragile e luminoso. STRE ci apre le porte del suo immaginario, raccontandoci come un semplice istante — l’immagine di uno spaventapasseri in cerca d’abbraccio — sia diventato il punto di partenza per una riflessione profonda su sé stessi, sull’attesa e sulla forza nascosta nella vulnerabilità. Ecco cosa ci ha raccontato.

Hai detto che la canzone è nata dallimmagine di uno spaventapasseri che voleva un abbraccio”. Puoi descriverci il momento esatto in cui quellimmagine è apparsa nella tua mente e come si è trasformata così rapidamente in melodia e testo?
È stata una scintilla, è successo tutto in un attimo: stavo guardando una serie TV e, per pochi secondi, in una sequenza è apparso uno spaventapasseri. Solo che, invece di spaventarmi, quella figura mi ha trasmesso una strana tenerezza, un senso di solitudine quasi dolce. Ho sentito che dietro quella postura rigida, con le braccia spalancate, c’era più richiesta d’affetto che una volontà di minaccia; forse è stata solo quella meravigliosa cosa che fa il cervello di farci riconoscere in cose assurde e antitetiche. E quindi ho pensato a me, a certe situazioni che ho vissuto — quel disagio di chi si sente un po’ fuori posto, di chi ama stare solo ma in realtà è sempre alla ricerca di un contatto umano, di una presenza accanto. Ricordo che ho esclamato d’istinto, a chi era con me: “Guarda, uno spaventapasseri che vuole un abbraccio.” In quel momento ho capito che le sue braccia divaricate non erano solo un simbolo di paura, ma di accoglienza. La prima frase che mi è venuta in mente è stata “Che sembro distante, che sono inquietante” — e da lì è nato tutto. Il ritornello è arrivato subito e poi, quasi senza accorgermene, in quella stessa serata ho scritto l’intera canzone. È stato come se quella figura avesse trovato la sua voce attraverso la mia.

Il tuo spaventapasseri è metafora di chi indossa una maschera che spaventa” ma ha un cuore che chiede affetto”. Quanto è difficile, nel panorama musicale contemporaneo, mostrare apertamente questa fragilità senza timore di essere etichettato o di perdere la propria maschera” artistica?
Per me non è difficile, anzi, la musica è proprio il mio modo per aprirmi, per far uscire cose che altrimenti resterebbero chiuse dentro. A volte penso che chi ascolta le mie canzoni potrebbe arrivare addirittura a conoscermi più di chi mi frequenta nella vita reale, perché nella quotidianità faccio più fatica a mostrarmi davvero. A volte le persone mi percepiscono solo come un animo estremamente esuberante ed estroverso e si fermano a quello. In realtà ho una gigante dark side in me di paure e tristezze.  Si, nella vita ho spesso paura ma nella musica no: lì mi sento di essere completamente sincero e questa fragilità diventa una forma di forza. Che poi è pure quello di cui parla la canzone.  Non temo di essere etichettato come “fragile”, perché Spaventapasseri parla proprio della forza che può avere la vulnerabilità. E non sento neanche di perdere una maschera artistica, perché quella maschera, in realtà, non è un travestimento: è una parte di me, forse persino quella più autentica. È come se lo spaventapasseri rappresentasse la mia interiorità esposta al vento, ferma, ma viva, spaventata e accogliente allo stesso tempo.

Qual è stato lelemento sonoro che ha fatto da ponte tra queste atmosfere vintage” e la produzione moderna, e perché hai scelto proprio il flauto per veicolare lemozione della canzone?
L’elemento sonoro che ha fatto da ponte tra le atmosfere vintage e la produzione moderna sono stati soprattutto alcuni strumenti acustici, in particolare la chitarra. Per me ci sono suoni che restano un po’ “immortali”: non determinano l’età di una cosa, perché molto dipende dal contesto in cui vengono inseriti e da come vengono “intortati”. Lo stesso strumento può suonare vecchio o moderno a seconda di come lo produci e lo arrangi.  Il flauto, invece, l’ho inserito nel ritornello perché mi trasmetteva un senso arioso di campagna, di paesaggio, di serenità. Volevo accentuare queste emozioni nella produzione, perché il brano, pur avendo un tono ironico e leggero, racconta una condizione di accettazione — una sorta di rassegnazione serena a una condizione di disperazione, senza drammaticità. Il flauto mi sembrava simpatico, in linea con questo mood, e quindi l’ho inserito proprio per sottolineare quella delicatezza e quella leggerezza che il brano porta con sé.

Essere contemporaneamente cantautore e regista ti ha permesso di dirigere il tuo videoclip. Come hai bilanciato lesigenza di esprimere la tua visione artistica del brano con la necessità di interpretare l’“uomo-spaventapasseri” di fronte alla telecamera? La clip si conclude con labbraccio simbolico a sé stessi, un invito allaccettazione. Credi che questo gesto di auto-accettazione, soprattutto in unepoca di costante ricerca di validazione esterna sui social, sia il messaggio più urgente che la tua musica vuole trasmettere?
Essere contemporaneamente cantautore e regista mi ha permesso di realizzare un piccolo sogno: interpretare io stesso spaventapasseri. Forse, inconsciamente, stavo solo aspettando l’occasione giusta per farlo. Quando mi sono messo davanti alla videocamera, non ho recitato: ho semplicemente lasciato che quella figura prendesse vita attraverso di me. Da bambino ero affascinato dal personaggio dello Spaventapasseri nel Mago di Oz: quello che doveva far paura, ma che in realtà era il più spaventato di tutti. Questa ambiguità mi ha sempre attratto. Non ho pensato a lui quando ho scritto “Spaventapasseri”, ma forse inconsciamente c’era già qualcosa di quel suo modo di essere che sentivo mio. È stato quindi come se fosse scritto nel destino: prima o poi avrei interpretato questo personaggio. Ricordo che, anni fa, durante una festa di Halloween mi ero vestito e truccato quasi esattamente come nel video, sentivo già quella connessione. In fondo, Spaventapasseri sono io — nelle mie fragilità, nei miei silenzi, nella voglia di essere abbracciato e di accettarmi così come sono. Credo molto nell’importanza dell’autoaccettazione, nel capire chi si è, anche nelle parti che non sempre mostrerei. È anche per questo che ho scelto di far uscire questo brano come primo singolo del mio prossimo disco: mi rappresenta profondamente, sia nel messaggio che nel suono. Dentro si sentono tante delle mie influenze, una ricerca sonora più ibrida e personale che oggi mi diverte e mi fa sentire libero. Sui social, più che cercare la validazione di tutti, cerco connessioni vere. Non voglio piacere a chiunque, voglio arrivare a chi può capirmi davvero, sperando ovviamente che possano essere man mano sempre di più. Un po’ come lo Spaventapasseri: non respinge, ma tiene a distanza ciò che deve restare lontano. E quell’abbraccio finale del video è il simbolo di tutto questo — accettarsi, anche quando si è fatti di paglia. Il gesto finale della clip, l’abbraccio simbolico a sé stessi, rappresenta proprio questo: un invito all’accettazione. In un’epoca in cui siamo costantemente in cerca di validazione esterna sui social, credo che sia uno dei messaggi più urgenti che la mia musica voglia trasmettere: il primo passo è accettarsi, comprendere e abbracciare la propria autenticità, fragilità incluse.

Sei cantautore e regista. Quale delle due vesti senti che ti permette di esprimere in modo più completo il messaggio che hai dentro, e in che modo le due discipline si nutrono e si completano reciprocamente nel tuo lavoro?
Sicuramente la musica. È lì che riesco a esprimermi in modo più completo, perché le canzoni nascono sempre prima delle immagini, ma da quelle della vita reale. I miei brani sono sempre fotografie di momenti, anche se questo in particolare è una fotografia di un momento quasi durato un intera vita; è una fotografia un po’ più grande, un “poster”. Detto ciò, non scrivo mai pensando già al videoclip: quello arriva dopo, come una fase creativa successiva, meno istintiva della musica ma comunque altrettanto creativa e ludica, in cui mi diverto a dare un “volto” visivo a qualcosa che dentro di me già esiste e che è stato già elaborato in musica. Le immagini che metto nei video, in realtà, sono spesso ricordi o sensazioni che mi produce questa “elaborazione” frutto sempre delle mie esperienze, quindi più che inventarle, le riconosco. Detto anche questo, non posso negare che però musica e regia si influenzano a vicenda. A volte una canzone mi suggerisce un “ritmo” visivo, o viceversa una scelta estetica mi fa capire meglio che tipo di emozione sto cercando di raccontare con le stesse immagini. Per esempio, nel video di “Spaventapasseri” ho scelto un montaggio molto frenetico, proprio perché il protagonista — pur essendo immobile — vive un grande movimento interiore. Credo che l’unione tra musica e immagine possa creare qualcosa di molto identitario. Per me il videoclip è ancora una forma suggestiva di recepire una canzone, non solo promozionale. Oggi molti brani escono con clip pensate per i social, che però durano il tempo di un trend. Il video musicale, invece, come una canzone, resta. Racconta un mondo, un’emozione, un momento. E finché avrò modo e possibilità di farlo, continuerò a curare entrambi gli aspetti, perché credo che insieme possano lasciare un segno più riconoscibile e più duraturo.

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